Lavora accanto a me da più di tre ore. Silenzioso, tenace, incurante del fatto che fra poco parte il suo treno.
Mi sento grata, stordita, stonata, ho come il ricordo di una remota felicità; ma il dolore, il disagio, il malessere anche fisico mi fanno sentire fuori posto.
A tratti vorrei alzarmi ed andarmene, portando con me solo il ricordo.
A tratti vorrei abbracciarlo.
Anche lui deve provare ogni tanto qualcosa di simile, perché spesso mi appoggia la mano sulla spalla; è un suo gesto caratteristico, lo avverto come un tentativo di rassicurarmi, di farmi sentire anche fisicamente che c'è.
Ma io lo so che non è vero, lo so che se ne andrà come tutto il resto; e so che, quand'anche lui fosse vero, io non ho il diritto di averlo con me.
Però qui, adesso, posso averlo per un po', e non c'è niente di male.
Il mio cucciolo, quello più grande, ma pur sempre giovanissimo. Solo cinque anni più di lui. Ogni tanto lo guardo e gli sorrido, è bello.
I ragazzi se ne vanno, come se volessero lasciarci soli. Avverto un lampo nel suo sguardo, è la prima volta che restiamo soli e forse questo lo allarma, non so bene perché.
Ma niente paura, è tutto normale: mi alzo, rimetto a posto le mie cose ed usciamo.
Io non ne ho, di imbarazzo; forse gli altri trovano strano vederci uscire insieme, ma io no.
E' tardi e gli chiedo se vuole un passaggio alla stazione (dico testualmente "uno strappo", contagiata dal gergo giovanilistico): accetta subito, abbassando lo sguardo.
Sale in macchina e io faccio manovra per uscire dal posteggio, e intanto parlo del più e del meno con tranquillità; perché in effetti sono tranquilla, è proprio normale che lui sia qui. Non provo emozione, ma una serena dolcezza. Vedo che questo lo mette a suo agio. Faccio tutto il possibile per metterlo a suo agio.
Per un attimo però mi trafigge un senso di errore lancinante, ed è quando sto per arrivare alla stazione. A quella stazione.
Lo farò scendere dove facevo scendere lui? Lo saluterò come salutavo lui?
No, questo non va bene: non è lui.
Quella è una cosa finita, è una cosa sacra, anche se è successa tutta dentro di me e lui in realtà non c'era.
Ma poi, soprattutto, sono finita io, io non ci sono.
Dissimulo il disagio parlando di altro; mi chiede dove abito, glielo spiego.
Stiamo per arrivare e il senso di errore è quasi insopportabile. Ma per fortuna la cosa non succede.
- Ecco, puoi lasciarmi qui - dice.
- Perché?
- La strada è interrotta per lavori, non l'hanno ancora riaperta.
Il regista sa il fatto suo: era proprio così che doveva andare.
Accosto, lui apre la portiera e scende. Mi dice qualcosa tipo "A presto", gli sorrido e riparto.
E' così che dev'essere, una cosa normale nel suo assurdo, inaspettato splendore.
Solo, ogni tanto, vorrei poterlo abbracciare, vorrei potergli dare un bacio.
martedì 23 febbraio 2010
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